LA COLTIVAZIONE E LAVORAZIONE DEL LINO

Cardile è un piccolo borgo dell’entroterra cilentana, appartenente al circondario di Vallo. L’urbanizzazione del centro antico si è sviluppata sul dorso di una spiovente collina, circondata dai monti Ciglio, Figliarulo e Laura che lo proteggono dai freddi venti del nord; fattore questo che ha favorito lo sviluppo dell’agricoltura. Nelle sue ubertose campagne si coltivano l’ulivo e la vite ma nel passato, e fino a qualche decennio fa, si praticava anche la coltura e la lavorazione del lino per la produzione di tessuti di pregiata qualità artigianale. Il lino è una fibra composita ricavata dal libro del Linum usitatissimum (lino) composta per circa il 70% da cellulosa. Come tutte le fibre liberiane, il lino ha una lunghezza media delle fibre elementari che varia dai 20 ai 30 mm; la sua finezza si aggira dai 20 ai 30 micron. Il numero di fibre presenti nella corteccia di una singola pianta può variare da 20 a 50 ed ha un aspetto lucido. In presenza di umidità questa fibra ne assorbe rigonfiandosi moderatamente.

fioreLino

Figura 1 Fiore di lino

 

Non è stato semplice ricostruire le varie fasi della coltivazione e lavorazione del lino e In questa fase preziose si sono rivelate le testimonianze delle persone anziane che  hanno raccontato minuziosamente i vari processi. Il lino veniva seminato nel mese di novembre in terreni molto fertili e ricchi d’acqua. Le pianticelle spuntate con i primi tepori, nel mese di marzo venivano liberati dalle erbacce attraverso un’operazione detta “zappettatura”. Nei mesi di giugno e luglio, le piantine di lino, giunte a maturazione, previa innaffiatura per ammorbidire il terreno, venivano sradicate dal suolo, raggruppate in mazzetti e messa ad essiccare al sole. Seguiva la fase della pestatura, operazione che si effettuava sulle aie, e consisteva nel separare i semi dalla pianta. I semi si conservavano non solo per le successive semina, ma venivano impiegati anche per usi medicamentosi; in altre parole servivano per fare impacchi caldi detti “cataplasmi”. I mazzetti, separati dai semi, venivano sottoposti a “maceratura”, che consisteva nel collocarli all’interno di vasche o di pozzi di acqua corrente, costruiti con pietre sovrapposte che imprigionavano i mazzetti e ne impedivano il contatto con i fondali limosi. Tali pozzi, in base ad una delibera del decurionato di Gioi del 1820, bisognava costruirli lontano dall’abitato per evitare infestazioni malariche. In questa dimora il lino restava 40 giorni, quindi veniva rimosso e posto ad asciugare al sole. Seguiva la “manganatura” per liberare le fibre dalle parti legnose che le rivestivano; il “mangano” era l’attrezzo utilizzato. Con la “spatolatura” si eliminavano i residui legnosi e la successiva fase della “cardatura” si otteneva il prodotto, ”le corenedde”, pronto per essere filate. La cardatura si eseguiva con il “cardo”, attrezzo da cui, secondo la tradizione,  sarebbe derivato il nome del paese: Cardile. Nella filatura, eseguita a mano, si utilizzavano due attrezzi: la “conocchia”, su cui si avvolgevano le corenedde, e il “fuso” su cui si avvolgeva il filo. Seguiva la fase dell’orditura per preparare l’ordito da collocare sul telaio e in tale processo si utilizzava “l’ordeturo”. Questo attrezzo era costituito da quatto assi di legno che formavano un rettangolo e si appoggiava ad una parete. Sui due assi verticali vi erano conficcati, a distanza regolare, dei pioli su cui si avvolgevano i fili che l’orditore/trice guidava servendosi di un’asticella di legno, recante dei fori entro cui passavano i fili, chiamata “seglietora”. Ad operazione ultimata l’ordito veniva rimosso e sistemato sul telaio. Si fissava un’estremità dell’ordito al “subbio” dell’ordito e si avvolgeva su di esso fino all’altra estremità che veniva fissata al “subbio” del tessuto; prima però si dovevano far passare i fili tra le maglie dei licci e i denti del pettine che serve per battere le trame sul fronte del tessuto. Il saliscendi dei licci, azionati dai pedali, genera una separazione tra i fili dell’ordito, il “passo” entro cui scorre la trama che è avvolta su dei rocchetti chiamati “cannedde”. Queste ultime venivano preparate utilizzando due attrezzi chiamati, dialettalmente “‘ngannalaturo” e “‘uennole”. La “cannedda” alloggiava nella navetta e veniva spinta dalle abili mani dell’operatore/trice attraverso il passo che di volta in volta si formava e il tessuto prendeva forma. Nel denominare procedure e attrezzi sono stati utilizzati volutamente i termini dialettali nel tentativo di recuperare una memoria storica anche attraverso il dialetto.