LA FAMIGLIA RICCIO NEL RISORGIMENTO

La rivolta cilentana del 1828 dei fratelli Riccio di Cardile raccontata da Nicola Manna

acquerello la lavata
 Platea la lavata dove furono esposte le teste di Alessandro e Davide Riccio (acquerello di Mario Romano)
acquerello lo vaglio
Località Lo Vaglio luogo di incontro tra carbonari (acquerello di Mario Romano)

Alessandro, Davide e Licurgo erano figli del medico Riccio Nicola da Cardile; si diceva che quando il padre faceva colazione con i figli raccomandava: “ Non dovete dire mai VIVA IL RE”.
La casa dei Riccio non esiste più; essa fu demolita quando si costruì la strada Gioi-Moio verso la fine dell’ 800 e delle sue mura rimase che un piccolo vano di cui oggi è proprietario Palladino Giovanni fu Raffaele, lì dove noi chiamiamo “Quattro Venti”: l’entrata era a via Fusco dirimpetto al muro ove fu messa la lapide di marmo in onore di questi “martiri”. Essa fu ordinata dal governo fascista in tutti quei paesi del Cilento dove erano stati i rivoluzionari del 1828 e quando fu inaugurata giunse da Salerno il segretario federale del Fascio On.le Iannelli, il suo seguito e le autorità comunali.
Alla rivolta del Cilento con a capo il canonico De Luca di Celle di Bulgaria, parteciparono 400 soci iscritti alla Carboneria; tra questi c’erano persone di Cardile di cultura elevata; infatti, nella gerarchia che si era istituita, Alessandro, medico, era Capitano di Campo. Alcuni di essi tradirono i compagni della Carboneria ed andarono dal Re di Napoli Francesco I e gli riferirono della rivolta che si stava tramando contro di lui.
Le autorità borboniche ordinarono di catturare tutti i rivoltosi, di fucilarli e di tagliare loro le teste, esponendole nelle piazze. Il pubblico capo esecutore fu il Generale Del Carretto.
I tre rivoltosi di Cardile, Alessandro, Davide e Licurgo, verso la metà di luglio del 1828, giorno di una piccola festa, si trovavano nelle zone alte del paese. I tre fratelli si armarono e si dettero alla fuga attraverso la via che porta a “S. Petito” o “Area dello Bruno”. Licurgo disse: “vogliamo scappare insieme, cosicché possiamo difenderci l’uno con l’altro?”. Alessandro replicò: “No! Dobbiamo andare da soli, così se ammazzano l’uno, non ammazzano l’altro”. Pertanto, Alessandro decise di andare verso i paesi di montagna nella Valle del Diano.
Licurgo, che forse voleva andare verso Gioi, appena giunse al Ponte Vecchio e vide le guardie, indietreggiò verso il mulino ad acqua; ma, le guardie che erano appostate al di là del vallone si misero a sparare. Licurgo venne ucciso dalle guardie di Monte Cicerale lì dove oggi si trova la torre del mulino.

 

Il ponte nei pressi del mulino dove fu ucciso Licurgo Riccio dai gendarmi reali (da una tela del pittore Nicola Rizzo)

Il ponte nei pressi del mulino dove fu ucciso Licurgo Riccio dai gendarmi reali
(da una tela del pittore Nicola Rizzo)

 

Davide scese la “Costa fredda” per nascondersi a Cardile là dove si trova la fontana di Emilio De Marco. Davide, “moschettato” dalle guardie e con una gamba ferita cadeva a terra dicendo: “Io mi sono arreso”. Intanto il Caporale Maggiore, di nome Caprone, gli sparava sempre di più, cercando di far partire il colpo di grazia. Allora Davide disse “Vediamo se spara di più il tuo fucile o il mio”. Davide impugnò il fucile che era a “scherde”, con pietra focale e sparò ferendo gravemente il Caporale. Subito dopo Davide fu arrestato e trasportato nelle prigioni di Vallo. Il caporale morì per strada. Durante la reclusione a Vallo, in attesa della fucilazione, fu trovata nelle tasche di Davide una lettera che intendeva mandare segretamente alla sua setta, nella quale diceva: “cari compagni miei venite a liberare me che sono il vostro capo e vostro capo sarò”. I carcerieri ebbero paura che i rivoltosi fossero andati a liberarlo e ai finestroni del campanile di San Pantaleo misero delle lenzuola per spiare e non essere visti.
Il Giudice di Gioi fece chiamare un muratore per far costruire nella piazza di Cardile tre pilastri di tre metri con sopra un grosso chiodo dove infilzare le teste di Alessandro, Davide e Licurgo. Fu invitato il muratore Carlo Scarpa di Gioi, il quale disse che non poteva lavorare perché era invalido avendo una gamba paralizzata. Allora il Giudice fece chiamare un altro muratore di nome Francesco Manna, nato il 1774 e morto il 1883, visse 109 anni: era tra le autorità comunali, fece il servizio militare sotto Giuseppe Bonaparte e poi il Re Gioacchino Murat.
Disse Francesco Manna: “Signor Giudice, è inutile costruire questo pilastro per Alessandro, quell’uomo è “fino”: non sarà catturato”. Rispose il Giudice: “400 ducati fanno gola a me ed a ognuno, fai il pilastro, la testa di Alessandro fra otto giorni sarà qui”. Davide insieme ad altri “martiri” fu fucilato il 28 luglio 1928 a Vallo in piazza Spio, là dove fu posta la lapide di marmo e la sua testa fu portata a Cardile. Dopo otto giorni Alessandro ritornava a Cardile e nel bosco dov’è la fiumara di Campora trovò il suo compare Carlo Maria D’Andrea di Campora, scalpellino, con un giovane discepolo di 18 anni. Costui stava costruendo una macina di pietra per frantoio o per mulino; Alessandro lo salutò, lo abbracciò e gli raccontò il fatto che gli era capitato, poi disse: “compare, fammi un po’ di frescura perché voglio riposare”, e quello con rami, foglie di ontani e felci gli fece la frescura e lì si coricò. Poi disse: “compare, mi sei fedele per il San Giovanni?”. Carlo Maria rispose di sì: “Questa è la mano del San Giovanni, dormi tranquillo”. Il compare disse con il discepolo: “Noi dobbiamo prendere questa taglia di 400 ducati, perciò lo ammazzeremo! Tu lo colpirai allo stomaco con un palo di ferro ed io gli darò con una mazza di ferro sulla testa”; e così fecero. Alessandro a sangue caldo voleva prendere il fucile, ma non poté farlo e morì. I due tagliarono la testa di Alessandro e la misero in un tovagliolo sanguinante a scorza di albero, passarono per i paesi per portarla a Vallo al Sotto Intendente, al quale dissero che quella era la testa di Alessandro Riccio e gli raccontarono come lo avevano ammazzato, rivelando che uno di loro era compare di Alessandro.
Il Sotto Intendente prese i 400 ducati che erano sul tavolo e glieli consegnò da dietro le spalle. Il compare infatti aveva tradito Alessandro, al quale era legato dal vincolo del San Giovanni. Il discepolo fu fatto guardia comunale per tutta la vita.
Le teste dei “martiri” esposte al pubblico nella piazzetta adiacente all’arco S. Rocco, dopo giorni incominciarono ad imputridire e a puzzare, i vermi cadevano, i cani e le galline li prendevano e le donne che passavano con le giarle di acqua dovevano evitarli; una notte furono prese queste teste, furono tolte e seppellite in un orto. Subito dopo fu fatto reclamo al Giudice e questi disse: “Hanno fatto bene a toglierle in quanto, per esempio a tutti, bastava tenerle esposte per pochi giorni”.
La vedova di Davide Riccio andò anche a Napoli dal Re Francesco I per impietosirlo. Il Re la fece ricevere dalla Regina, ornata da un diadema d’oro. La vedova disse: “Sua Maestà, sono la sfortunata vedova di Davide Riccio, povera con figli, Vi chiedo pietà”. La Regina rispose: “Tuo marito voleva la testa di mio marito, mio marito si è preso la testa di tuo marito! Vai a seconde nozze!”. Le voltò le spalle e se ne andò.

Biografia di Nicola Manna

Nato il 2 marzo 1902 a Cardile in via San Giovanni da Giovanni Antonio (muratore) e Apolito Rosalia.
Fin da piccolo è evidente in lui la passione per la lavorazione della pietra arenaria. Dal 1921 al 1923 fa parte della Regia Arma dei Carabinieri. Nel 1925 emigrò in America del Sud (Brasile) nella città di Petropolis dove esercitò la professione di capomastro muratore. Rimpatriato alla fine del 1926 andò a nozze con Manna Barbara Giuseppina. Fino al 1936 esercitò la professione di muratore, interrotta in seguito ad arruolamento volontario per la campagna in Africa orientale e rimase al Comando-base di Napoli come caporale dell’esercito italiano, prestando servizio nell’unità di Castel dell’Ovo. Restato a casa per due anni, fu richiamato alle armi nel febbraio del 1939 e inviato a Bengasi in Africa come caporale maggiore. Congedato, fu di nuovo richiamato nel marzo del 1941, rimanendo in forza all’esercito italiano di Napoli fino al giugno del 1945. Ritornato in patria dopo i conflitti bellici a cui aveva partecipato, si dedicò allo studio di reperti archeologici rinvenuti nella località “Teano” di Cardile e alla raccolta di notizie storiche sul paese di origine. Inoltre costruì nel 1926 il campanaretto e la nicchia con altare nella Cappella del Carmine; partecipò al restauro della Chiesa di San Giovanni Battista rifacendo le cornici interni e la nicchia di Sant’Antonio.
Morì a Cardile l’11 maggio 1990.

Pietra da macina testimone dell'uccisione di Alessandro Riccio
  • – Pietra da macina testimone dell’uccisione di Alessandro Riccio
Il fucile di Alessandro Riccio
  • – Il fucile di Alessandro Riccio

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